Leggendo questo libro di Flavio Casella non ci sentiamo soli: si tratta di una lettura corale, sapientemente polifonica. Da una parte, tra una riga e l’altra, ci strizza il suo occhio bo-nario lui, il Grande Maestro, Carlo Emilio Gadda; dall’altra fanno da contrappunto i versi dei cantautori e dei miti rock degli anni ’60 e ’70, che rappresentano gli snodi stessi della cornice narrativa.
Del resto, il Nostro dichiara fin dall’inizio con beffardo ardire “la sua disdicevole intenzione di saccheggiare i Grandi Maestri per i suoi turpi scopi”.
Al centro di queste burlesche escursioni letterarie, con tan-to di sottofondo musicale, si staglia nitidamente l’estro crea-tivo del narratore in tutta la sua originalità. Da callido maestro d’orchestra, che conduce la sua musica dove vuole, Flavio Casella contempera le diverse suggestioni, scandendo i tempi, gli ingressi, gli strumenti, le voci e le dinamiche. E lo fa con ironia e provocazione, con quel garbo beffardo che allieta e rincuora.  Eccoci, allora, davanti alla sua voce unica e genui-na: cosa raccontare? Come farlo? Quale via scegliere, se perfino gli uomini saggi ignorano “come ci si sente / a essere spesso come un mattone”?
La sfida che Flavio ci propone è, dunque, questa: provare a collocarci dalla parte del mattone, entrare nella solida com-plessità del suo spessore, tastarne la materia viva. Un bell’affondo nel caos bisbetico del “così-va-il-mondo”!
All’inizio, eccolo lì il protagonista, che si tira nervosamente la barba e succhia assorto il bocchino della pipa spenta, per ghermire “l’idea”; eccolo imboccare la strada impervia dell’invenzione originale. Riuscirà il nostro eroe?
Per questa avventura letteraria Casella chiama in causa il proprio vissuto, la sua memoria personale e quella vivezza creativa a cui nessuno scrittore, che sia degno di tal nome, può rinunciare. E tutti gli elementi evocati rispondono beni-gnamente all’appello. Questa la sua affollata “super-cricca”: i miti della giovinezza, gli eventi di un’intera epoca, le lotte studentesche e l’alluvione di Genova del ‘70, gli svaghi, gli studi, il lavoro, i costumi e le tradizioni, la musica, i ricordi, le esperienze nell’ambiente genovese e milanese.
È a questo punto, allora, che l’ironico tributo letterario si stempera fino a dissolversi del tutto e si percepisce soltanto l’autentica vena narrativa dell’autore, la sua cifra irripetibile. Il vero Flavio Casella è qui, dove neppure Gadda, Calvino, Manzoni e Leopardi si sentirebbero autorizzati a penetrare: qui l’autore è davvero l’unico artefice e complice della sua affabulazione.

Come definire questo libro? È lo stesso protagonista a pre-cisarlo: romanzo no, semmai un “racconto lungo, romanzo breve magari”. Il motivo è presto detto: coi personaggi non si sa mai bene come va a finire, “ti prendono per mano, e pian piano ti portano dove vogliono loro, e alla fine il racconto ti viene più lungo, o più corto, o magari va a finire in un modo che non t’aspettavi”.
Intorno al protagonista, infatti, ruota una felice teoria di soggetti minori; figure secondarie sì, ma rappresentate con tocco inappuntabile e memorabili per la loro squisita caratte-rizzazione, come per esempio il curioso studente Giacomelli, l’emerito docente del corso di Tecnologia Meccanica, la be-namata Anna Laura, anzi Annalaura e, infine, la “dolce assi-stente di Analisi Uno”, tanto per citarne alcune.
Quest’opera è anche, però, l’occasione di un imperdibile colloquio à trois fra l’io narrante, il suo ipotetico lettore e l’assillante editore Aldo “el mè editur rompabal”.
Le destrezze linguistiche in quest’opera ci sono tutte, come un giocoso ossequio al Grande Maestro: la disinvolta commistione dei dialetti, i neologismi, i dialettismi, i linguaggi settoriali, i latinismi, i grecismi, i lirismi della tradizione. Un’esplosione pirotecnica di varietà linguistiche e stilistiche, un frizzante garbuglio o pasticciaccio di espressioni auliche, colloquiali, gergali. Differenti registri appaiono e scompaiono con levità burlesca: il maestro d’orchestra dirige con sapienza l’armonia dei toni, le rapide gradazioni dal grottesco al sarcastico, dal patetico al tragicomico. E su tutto aleggia un riso, meglio un sorriso, che assume una beata valenza liberatoria: anche così si esorcizzano le imprevedibilità dell’esistenza, le risonanze del gaddiano “male oscuro”.

Alla fine, dopo aver gustato tutto d’un fiato questo libro, il lettore si accorgerà che la storia si è “dipanata quasi da sola, come per generazione spontanea”. Tale fluida conclusione, più che far venire in mente “la partenogenesi della fillossera”, richiama invece la provvidenziale prolificità dei narratori autentici come Flavio Casella, che sanno, loro sì, condurci, quasi inavvertitamente, nell’amabile viluppo della finzione narrativa.
Ci sono ricordi che hanno un loro tempo e un loro spazio privilegiati, una specie di geografia dello spirito con le proprie esatte coordinate, che costringono a percorsi obbligati, a mete meravigliosamente forzate: persone, fatti, luoghi, emozioni che ormai costituiscono la nostra stessa spina dorsale e che non riusciremmo mai a scrollarci di dosso. Ciò costituisce il fulcro vero di quest’opera “diligentemente composta in Word 97”, soffusa nel finale di schietta malinconia e di placida no-stalgia.
È così che il mattone diventa lieve come un foglio, o una foglia, e che la narrazione si tramuta in un’ala sottile del pen-siero. Il narratore scopre, insieme a noi lettori, che non è vero che “tutto quello che c’era da scrivere al mondo” è già stato scritto. Scrivere è sempre un ricominciare e, come nel caso di Flavio Casella, è anche una disinteressata “offerta dal pro-fondo del cuore”.


Tiziana Soressi